Il Covid ha segnato la vita di migliaia di famiglie, causando da febbraio 2020 a oggi più di 130mila vittime solamente in Italia.
Ma c’è un’altra tragedia che si snoda parallelamente alla pandemia e di cui non si parla abbastanza: sono i dimenticati del Covid, le persone affette da patologie degenerative o tumorali a cui il lockdown dello scorso anno e le varie restrizioni che ne sono seguite hanno tolto tutto.
Hanno sottratto loro tempo, la possibilità di accedere alle cure e di contenere il progredire della malattia.
Perchè certe patologie non aspettano, corrono inesorabili, se ne infischiano dei ricoveri rimandati, dei trattamenti posticipati, delle zone gialle e rosse, delle limitazioni e degli ambulatori chiusi per Covid.
Nel 2020 sono state rinviate 400mila operazioni chirurgiche e si sono registrati 1 milione e 300mila ricoveri in meno rispetto al 2019 (*). Gli italiani hanno ricevuto 73 milioni di prestazioni specialistiche in meno e le mammografie sono diminuite del 32% (**). Numeri che non sono solo statistiche: sono persone a cui è stata tolta l’opportunità di lottare contro una malattia.
“Il Covid mi ha mangiato quel poco di speranza che avevo”, racconta con amarezza Pietro Lonardi di Legnago (Verona). Pietro è un giovane papà e imprenditore, ha 52 anni e da fine 2019 combatte contro una patologia terribile, la SLA.
“L’aspettativa media di vita di un malato di SLA è da 3 a 5 anni dopo la diagnosi”, spiega Pietro, “I primi dodici mesi successivi alla diagnosi sono i più importanti, perché in questo periodo di tempo il corpo ha ancora una certa mobilità e quindi la speranza è di riuscire a limitare i danni della malattia agganciando la sperimentazione. Nel mio caso la diagnosi è avvenuta a dicembre 2019, il Covid è partito a febbraio 2020. E tutto si è bloccato. Il mio primo anno, quello più importante, è stato quello in cui qualsiasi possibilità di sperimentazione e ricerca sono state sospese”.
Al momento in Italia le uniche due sperimentazioni contro la SLA sono ferme e ripartiranno il prossimo anno. Si tratta del progetto Promise dell’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, coordinato dal Professor Giuseppe Lauria Pinter,che ha registrato ottimi risultati di rallentamento della progressione della malattia in fase 2 utilizzando il guanabenz, un farmaco anti-ipertensivo fuori commercio. La seconda sperimentazione, guidata dal Professor Angelo Luigi Vescovi, direttore scientifico dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, riguarda il trapianto di cellule staminali cerebrali.
“La sperimentazione con le staminali è la grande speranza per i malati di SLA”, sottolinea Pietro, “purtroppo il suo avanzamento dipende non solo dal reperimento di fondi ma anche dall’autorizzazione da parte dell’AIFA delle varie fasi di trial. Ma AIFA ora è concentrata solamente su vaccini anti-Covid e pandemia. Io però non posso permettermi di aspettare il prossimo anno, quando ripartirà la ricerca: ogni mese perdo un pezzetto del mio corpo. Noi malati di SLA siamo molto arrabbiati perché non abbiamo tempo e la pandemia ci sta togliendo qualsiasi forma di speranza. Le case farmaceutiche non hanno nessun interesse che la ricerca sulle staminali vada avanti perché chi è affetto da SLA non fa fatturato”.
“Dopo la diagnosi”, spiega Pietro, “un malato di SLA è abbandonato a se stesso. Chi è affetto da questa patologia si rivolge ad associazioni specifiche (nel mio caso la sezione veronese di UILDM) che, dopo una serie di visite iniziali, monitorano il paziente con incontri trimestrali di controllo per valutare l’evolversi della malattia e per capire quando assegnare ausili come carrozzina, deambulatore, respiratore, sedia per la doccia, letto etc. Praticamente seguono i malati nel decadimento. E’ ovvio che sul fronte della ricerca, più passa il tempo più si è una cavia non rappresentativa, per cui nel momento in cui si arriva al blocco a letto non si rientra più in nessuna sperimentazione”.
Nonostante le difficoltà, Pietro continua a lavorare da una postazione computerizzata ricavata nella camera da letto. Titolare di un’azienda di stampaggio lamiere di 60 dipendenti assieme alla sorella Silvia, grazie a un microfono direzionale riesce a controllare i preventivi e rispondere alle mail servendosi di un sistema di dettatura di Office.
“Per un malato lavorare è un dono”, racconta. “Quello mi che rende felice è creare valore. La mia azienda va bene grazie alle brave persone che ci lavorano. Prima di ammalarmi lavoravo 14 ore al giorno. Sono contento di quello che ho fatto, però se tornassi indietro viaggerei di più. Ho viaggiato troppo poco. Avrei potuto essere più equilibrato e dedicare più tempo alla mia famiglia. Ma ho creato valore per gli altri. Quando ti ammali ti rendi conto che non ti porti via niente, nemmeno il corpo, porti via lo stato mentale, la forza interiore che hai sviluppato. Quello porti via, il resto è a noleggio”.
Gli chiedo se è arrabbiato per la sua malattia. “Gli altri malati chiamano questa malattia “la bastarda”: si muore pian piano, si muore perché non si respira più. Ma io non sono arrabbiato. Ho tanta fede, così come la mia amata moglie Claudia. Questa prova ci ha avvicinato ancora di più all’Universo, che si chiama così perchè c’è un unico verso, il verso dell’amore. Ci vuole coraggio. Io ho la consapevolezza assoluta del mio decadimento. Per una persona che non ha fede questa malattia è una tortura perché si percepisce la perdita della funzione di vita, momento dopo momento. Nell’ultimo mese ho avuto un crollo della funzione del parlare, so che sto andando verso il letto”.
“Le malattie degenerative tolgono la possibilità di crescere, di essere domani migliore di oggi”, continua. “E’ un demone che ti sussurra all’orecchio: oggi sei quello che sei, domani ti tolgo gambe, poi mani, poi parole e poi respiro. Ma penso che non esista una situazione di vita che sia insopportabile vivere, dipende dagli occhiali che ti metti. Per sopravvivere devi abbandonare il superficiale e cercare nel profondo il senso di quell’unico verso che c’è nell’universo. Cosa voglio dire? Niente è tuo nemmeno il tuo corpo e Dio si riprende quello che è suo. Con gli occhiali della fede non c’è situazione che non sia vivibile. Non ho paura.”
Al momento l’unico farmaco disponibile per il malati di SLA è il Riluzolo, un rallentatore della malattia che però ha effetti collaterali a livello del fegato. Tutto il resto, come gli integratori che sta assumendo Pietro, sono iniziative singole di ciascuna persona, in cerca di cure alternative di supporto in attesa che la ricerca riparta.
Anche per Andrea Marini, 37 anni, affetto da Sclerosi Multipla dal febbraio del 2019, la sperimentazione con le cellule staminali è l’unica speranza rimasta dopo che il lockdown dello scorso anno ha causato un ritardo nei trattamenti contro la sua malattia, provocandogli una lesione irreversibile a livello neurologico, impattando sul suo equilibrio.
Originario di Legnago, ma residente in Germania dove gestisce un ristorante assieme ai genitori, prima della pandemia Andrea si recava all’ospedale Mater Salutis di Legnago ogni sei mesi per ricevere un medicinale molto costoso, Ocrevus, un farmaco che viene iniettato tramite infusione endovenosa.
“Il mio terzo trattamento previsto a marzo 2020 è stato posticipato a novembre del 2020 a causa del lockdown”, ricorda Andrea, “le frontiere erano chiuse, non era possibile spostarsi, nemmeno per una cura “salvavita” come la mia, nonostante io abbia cercato, inutilmente, di ottenere un lasciapassare. Quei mesi di fermo hanno permesso alla mia malattia di galoppare e danneggiare il sistema dell’equilibrio. Ora faccio fatica a stare in piedi, mi muovo con due stampelle. E’ stato un colpo per me capire di perdere pian piano dei pezzetti. Prima il passo, poi un po’ la vista, ora l’equilibrio. Non riesco più a gestire la giornata come prima, lavorare è diventato sempre più difficile”.
Tre anni fa Andrea ha adottato Sam dalla Sicilia, un malamute di 6 anni, grazie al quale (prima della lesione all’equilibrio) ha trovato la forza di andare a fare delle brevi passeggiate, sfidando la sua malattia.
“Sam mi ha aiutato tanto”, confessa Andrea, “mi fa da angelo custode, controlla se sto bene, dorme con me. Ora però avendo perso l’equilibrio, non riesco più a camminare da solo con lui”.
Il lockdown ha compromesso irrimediabilmente la salute di Andrea. Ora la sua unica speranza è un trapianto autologo di cellule staminali. Poche settimane fa Andrea, dopo una serie di visite durate due mesi, si è recato all’ospedale di Genova per sottoporsi a chemioterapia, parte del cosiddetto “protocollo di condizionamento” necessario per permettere alle cellule staminali, prelevate dal sangue di Andrea, di essere infuse.
Ora Andrea dovrà aspettare un paio di mesi prima di tornare a Genova e sottoporsi al trapianto. Nella speranza che il suo corpo reagisca positivamente al trattamento.
*Dati della Società di Chirurgia Italiana
** Dati dell’Agenzia nazionale dei servizi sanitari