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Vietnam, Iraq, Afghanistan: la guerra cambia, i veterani no.

Sono le 10.30 di sera a Manhattan. Nella piccola piazza adiacente la stazione dei treni di Penn Station, decine di senzatetto dormono accovacciati sulle panchine di pietra. Uno su tre è un reduce della guerra del Vietnam, Afghanistan o Iraq.

Ogni notte, nella sola New York, 17.200 veterani senza dimora vagano per le strade alla ricerca di un riparo. Sono 800mila in tutti gli Stati Uniti. Ma il governo americano ha fondi e strutture sufficienti per ospitarne solo 110mila su tutto il territorio. Un problema recentemente sollevato dall’Associazione nazionale dei veterani, che solo lo scorso anno si è impegnata a trovare un posto dove dormire a 400 militari appena tornati dall’Afghanistan.

I reduci si arrangiano come possono per sopravvivere. Alcuni hanno ottenuto licenze dal governo per vendere merce sulle strade. Altri usufruiscono del cosiddetto Compensated work therapy, ovvero lo svolgimento retribuito di piccoli lavoretti che dovrebbero aiutarli a reinserirsi nella società. Ma molti non riescono a lavorare. I più “fortunati” (il 40%) sono tornati dalla guerra con problemi mentali. Gli altri lottano quotidianamente con epatite C, diabete, tumori e problemi alla pelle (causati dall’uso del defoliante Agente arancio in Vietnam) o si trascinano su stampelle e sedie a rotelle perché privi di qualche arto o paralizzati. E poi c’è chi (il 56% dei reduci) combatte ogni giorno la propria personale battaglia contro la dipendenza da droga.

Come Gustavo, ex berretto verde delle Forze Speciali, vent’anni spesi nell’esercito a combattere il narco-traffico in giro per il mondo Da sergente in prima, Gustavo si è trasformato in un senzatetto. Vive in uno scassato furgoncino bianco, spende ogni notte in cocaina tutti i soldi guadagnati lavorando come muratore durante il giorno. La droga ha distrutto la sua vita.

Ha iniziato a farne uso in America Latina, dove si spostava tra Perù, Colombia e Panama alla ricerca dei trafficanti. Quando nel 1999 i suoi superiori scoprirono la sua dipendenza, lo licenziarono seduta stante. A nulla valsero le stellette cucite sulla sua giacca da Ranger, la dedizione al lavoro, i rischi corsi: lui era un problema, una macchia nell’esercito. Nessuno gli tese una mano.

Ma allo scoppio della guerra in Iraq, Gustavo intravide la possibilità di riscatto proprio da chi lo aveva abbandonato. “Mi offrii come riservista”, racconta, “speravo di venire ucciso in missione o di tornare a casa da eroe. Così tutto sarebbe stato dimenticato”.

Ma le cose non andarono come previsto. Perché l’esercito non perdona. Tornato in America, Gustavo venne processato per quanto accaduto nel ’99, declassato al rango di sergente in seconda e dimesso con disonore dall’esercito. Anche la famiglia lo lasciò solo. Dopo 19 anni di matrimonio e due figli, sua moglie chiese il divorzio.

Rovinato finanziariamente dalla dipendenza da cocaina, Gus finì nel rifugio per veterani senzatetto di Long Island City, a New York. “Ho vissuto nella struttura per due anni, sentendomi un estraneo”, ricorda, “Ogni giorno mi guardavo intorno e mi chiedevo: cosa ci faccio qui con questi matti e disperati? Mi sentivo diverso da loro, meglio di loro. Ma poi mi mettevo in fila con tutti gli altri, a chiedere un pezzo di pane…”.

Da qualche mese Gus vive nel suo furgoncino. Non reggeva più il rifugio. Oggi guadagna 100 dollari al giorno in cantiere, ma la sera li consegna agli spacciatori. Non riceve la pensione: gli mancava un solo anno nell’esercito per averne diritto. Il Servizio degli affari per veterani lo ha affidato alle cure di uno psicologo, che gli ha diagnosticato un disordine da stress post-traumatico.

“Ho trascorso troppi anni da solo”, spiega, “Il confronto continuo con me stesso mi ha reso vulnerabile. E vivere per vent’anni in un ambiente duro e competitivo mi ha piegato”.

Una cosa Gustavo non si perdona: in Iraq ha ucciso un ragazzino iracheno. “Era il 26 aprile”, ricorda, “Ero in missione a Bagdad e dovevo evacuare diciotto soldati da una fabbrica di armi. Mancava un commilitone all’appello. Sono entrato in un edificio per cercarlo e un ragazzino è sbucato all’improvviso da una stanza, con un mitra in mano. Ho sparato due colpi senza pensare. E poi sono rimasto immobile a fissarlo, steso sul pavimento, mentre esalava gli ultimi respiri, spaventato e contorto dal dolore. Aveva dodici anni. Quegli occhi neri pieni di paura non li dimenticherò mai”.

Anche il portoricano Joseph Romero è tormentato dagli incubi, nonostante siano passati 40 anni dalla sua ultima missione in Vietnam. Il nome in codice della sua operazione quotidiana era “Cerca e distruggi” (Search and Destroy, S&D). Con altri sei soldati ogni giorno andava alla ricerca di Vietcong da uccidere. “Li seguivamo per giorni senza bere, mangiare e lavarci”, spiega, “Dopo un po’ non sentivamo più nulla, insensibili a tutto. Avevamo solo un obiettivo fisso: uccidere. Donne, uomini, bambini. Non importava. E quando tornavamo alla base, non c’erano ringraziamenti. Volevano solo numeri, body count: la conta dei morti”.

Jo si fece male a un’anca saltando da un elicottero. Pochi giorni di convalescenza e poi via, di nuovo a caccia del nemico. Fino a quando un colpo di mitra nella schiena lo rispedì a casa. Il dolore continuo gli fece sviluppare una dipendenza dalla morfina. Ma il dolore più forte era quello psicologico. “Non ero più me stesso”, confessa, “ero diventato freddo, di pietra. Nemmeno mia madre mi riconosceva più”.

Per un periodo Jo lavorò come guardia giurata, fino a quando agli inizi del 2003 qualcosa cambiò. ” I miei piedi si gonfiarono e iniziai a soffrire di nausee e vertigini. Mi ricoverarono in ospedale dove scoprii di avere l’epatite Ce il diabete e di essere affetto dall’Agente Arancio. Tutte conseguenze della mia permanenza in Vietnam”.

Oggi Jo vive nel rifugio per veterani a Long Island City. Cammina a fatica, aiutandosi con un bastone, il suo kit con la dose giornaliera di insulina sempre in tasca. Ha bisogno di soldi per curarsi ma il Governo gli passa solo 500 dollari al mese, il 60% della pensione cui avrebbe diritto. Un avvocato messo a disposizione dall’ufficio degli Affari per i veterani lo sta aiutando a fare causa al governo americano. “Il Governo sa che non meritiamo di sopportare tutto questo”, dice, “Ma quello che ci danno non è sufficiente. E noi intanto soffriamo. E siamo sempre più affamati. Un soldato che ha combattuto per il suo Paese ed è tornato cambiato per sempre, avrebbe almeno diritto ad un appartamento decente dove vivere gli ultimi anni della sua vita tranquillamente e dignitosamente”.

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Un veterano senza gamba di fronte al rifugio di Long Island City.